Commento al Vangelo: DA LADRI A DISCEPOLI

Una sola chiave, o tante?

La parabola si presenta sempre come un enigma aperto. Una sfida amabile rivolta all’ascoltatore. Non solo un invito a riflettere: ma una porta che si apre, che dischiude un cammino. Spetta all’ascoltatore decidersi a seguirlo. Le parabole non abbondano nel Vangelo di Giovanni. Troviamo il discorso della vite e dei tralci, che è piuttosto lo sviluppo, la spiegazione di una parabola. Troviamo le splendide parabole del chicco di grano e della donna incinta, che aprono alla comprensione del mistero della croce. E soprattutto troviamo il discorso del buon pastore. In cui appare netta la divisione tra l’enigma e le sue possibili soluzioni. E che forse ha ancora qualche tesoro da rivelare. C’è una sola chiave di comprensione? O dovremo ammettere che la parola divina resta inesauribile?

La scena

La scena parabolica (che Giovannni chiama “paroimia”, ovvero “similitudine”) sembra presentarci un pastore che ha affidato il suo gregge ad un guardiano. Nel recinto dunque le pecore si mescolano con le altre. Quando il pastore ritorna, le chiama per nome, ed esse lo riconoscono, ed escono, staccandosi dalle altre. Una parola chiave, ripetuta due volte, è il pronome possessivo enfatico: le sue proprie pecore, potremmo dire, per rendere la forza dell’espressione. La scena si allarga ad altri dettagli interessati: le pecore infatti non interessano solo al pastore, ma anche al ladro e al brigante. Costui non entrerà dalla porta, ma tenterà di salire di nascosto. Altro dettaglio decisivo, la voce: il pastore si differenzia dagli estranei perché la sua voce è conosciuta, e può guidare le pecore. L’estraneo, il ladro, il brigante, potrà rubare le pecore, ma non farsi seguire da loro.

Percorsi possibili

I discepoli non capiscono. Restano fuori dal discorso. Si tratta di un fatto sorprendente. Essi dovrebbero essere per primi “pecore” di Gesù. Dovrebbero essere i primi a “riconoscere la sua voce”. Invece la parabola li lascia indifferenti. Azzardiamo qui un tentativo di spiegazione, che segue una pista finora inesplorata: i discepoli non capiscono, perché sono esattamente nella prospettiva del ladro e del brigante. Sappiamo che i discepoli prima della Passione e Risurrezione pensavano di dover conquistare il mondo: ma non con la dolcezza dell’amore divino. L’evangelista Giovanni ci presenta Pietro che rifiuta di lasciarsi lavare i piedi da Gesù e che nel Getsemani sfodera la spada e colpisce. Gli evangelisti sono concordi nel presentare un fraintendimento tra Gesù e i discepoli che arriva fino all’ultima cena, quando ancora discutono chi di loro sia il più grande. Possiamo dunque ritenere i discepoli travolti dalla prospettiva mondana, della conquista e della ricerca del potere.

Pastori di popoli

In realtà non poteva essere diversamente. Nel mondo antico, la metafora pastorale indica essenzialmente una realtà politica: i re sono “pastori di popoli”, e anche in Israele, a partire da Davide, tratto dalla guida delle pecore alla guida del popolo, si riprende costantemente l’immagine del gregge di Dio, affidato a guide umane. Con esiti disastrosi. I discepoli dunque sono ben inseriti in una logica mondana, in cui chi comanda cerca il proprio interesse, la propria realizzazione, il raggiungimento del primo posto. Gesù, raccontando la parabola, e spiegandola a più riprese, permette loro di entrare in una mentalità totalmente differente. Ciò che Gesù spiega ai discepoli è di grande importanza per la Chiesa oggi. Perché anche noi abbiamo bisogno di capire che cosa significhi essere il “gregge di Dio”. E che cosa significa per la Chiesa avere da Dio l’incarico di “pascere” le sue pecore. Anche per noi è forte la tentazione: da una parte, quella della dispersione e dell’asservimento; dall’altra, la tentazione del potere.

La porta

Prima di definirsi pastore dunque, Gesù si definisce la “porta”. L’accesso alle pecore passa per una porta precisa, e questa porta è Gesù. Gesù è la porta in quanto è il creatore. Gesù è “porta”, in quanto parola di Dio fatta carne: lo scopo di una porta è di mettere in comunicazione, unire e separare insieme: separare non per escludere, ma per proteggere, per custodire ciò che è prezioso. Passare per la porta, che è Gesù, significa dunque rispettare l’integralità della persona: che è corpo e anima, materia e spirito, strutturalmente aperta al mistero di Dio. Passare per la porta significa rispettare la libertà, rinunciare alla costrizione, rinunciare alla seduzione.

Un’istanza critica

Viene spontaneo pensare alla campagna elettorale di questi giorni: al tentativo, da tutte le parti, di accaparrarsi i voti con promesse, blandizie, chiacchiere, discorsi forti o melliflui... La seduzione politica opera a partire da una scissione dell’unità della persona. Fa leva su aspetti singoli: la libertà, la socialità, la solidarietà, il rischio d’impresa, il vantaggio economico. La persona è divisa in se stessa e divisa dagli altri. Ma attenzione: è facile accanirsi contro i politici. Il problema è che queste parole di Gesù sono un’istanza critica anche per la sua Chiesa.

La voce

Una seconda immagine ha una grande importanza: la voce. “Le pecore ascoltano la mia voce”. Ma è la voce di Cristo che risuona nella sua Chiesa? Ripetiamo: è facile condannare la politica. Anche Beppe Grillo lo fa. Ma far risuonare la voce di Cristo? La voce di Cristo rispetta la libertà. Attira con dolcezza. Attira con la forza dell’amore. Il pastore “cammina davanti”, senza conquistare, senza spingere, senza forzare. E così converte pazientemente i suoi discepoli, pronti a conquistare il mondo con la forza, pronti a gettarsi nella lotta per il potere. Saranno pastori, saranno pescatori di uomini. Ma dovranno passare per la porta. Ascoltare e far risuonare l’unica voce che salva. Imitare il pastore, che dà la vita per le pecore.