X Domenica per annum

8 giugno 2008 - X Domenica del Tempo Ordinario A

Osea 6,3-6 Voglio l’amore e non il sacrificio.
Salmo 49 Chi cammina per la retta via vedrà la salvezza di Dio.
Rm 4,18-25 Si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio.
Alleluia (Lc 4,18) Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio; a proclamare ai prigionieri la liberazione.
Mt 9,9-13 Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.

In quel tempo, mentre andava via, Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».
Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

CURARE SENZA AMPUTARE

Un pubblicano chiamato

“Gesù amava i poveri”. Vero. Ma non i poveri che piacciono a noi. E non nella maniera che piacerebbe a noi... Gesù se la prendeva con i ricchi. Vero. Ma non i ricchi che detestiamo noi. E non nella maniera che piacerebbe a noi... Matteo per esempio. Seduto al banco delle imposte. Uno strozzino, un mafioso, oggi potrebbe essere un avvocato al servizio dei boss mafiosi, dei trafficanti di armi, colluso con i politici corrotti. Gesù lo chiama. Lo chiama a diventare suo discepolo. Il ricco strozzino, ex amico dei potenti e dei corrotti, fianco a fianco con i poveri pescatori oppressi. Gesù ci porta sempre dove non vogliamo. E fianco a fianco di chi si preferirebbe che stesse lontano....

Il pranzo e i discepoli

La seconda scena descrive un pranzo, in una casa non meglio definita. A casa di Gesù? A casa di Matteo? Non è importante. Ma può essere plausibile che sia quella di Matteo, visto che sopraggiungono i suoi pari, e si mettono a tavola. Gesù, i discepoli, gli strozzini corrotti amici dei Romani, con il loro codazzo di amici peccatori... Come si trovavano i discepoli in questa compagnia? Certamente con un certo disagio. Lo si può intuire dal fatto che proprio loro vengono toccati dal pettegolezzo maligno dei farisei (ma era proprio un pettegolezzo maligno? O era un’espressione di stupore?). Forse proprio il disagio dei discepoli rendeva possibile ai farisei di insinuare il dubbio nei confronti di Gesù. La loro domanda contiene un non velato rimprovero verso il Maestro, e verso chi lo segue.

L’imbarazzo e la risposta

Il Vangelo non riferisce una risposta dei discepoli. Presumibilmente, perché non sapevano che rispondere. E' verosimile che si trovassero in imbarazzo pure loro. Forse la domanda dei farisei non fa altro che mettere in luce e scoprire il dubbio che sta già scritto nei loro volti. Solo Gesù può rispondere. Solo Gesù ha piena coscienza di ciò che sta facendo. I discepoli ancora no. Sapranno come rispondere solo dopo la sua risurrezione, e dopo aver ricevuto lo stesso spirito di Gesù.

Risposta umana e risposta divina

Gesù risponde in due modi: prima con un detto sapienziale, che qui ha un valore quasi parabolico. Come sempre, la parabola fa appello a ciò che umanamente è già accessibile e comprensibile dalla coscienza dell’interlocutore. In aggiunta, cita anche una parola profetica. Essa dice ciò che non è umanamente accessibile, ciò che può essere rivelato soltanto da Dio. E tuttavia non si tratta di qualcosa di nuovo: è lì, a disposizione di Israele da secoli. La parola detta da Osea, senza che nessuno fosse in grado di interpretarla. Ora è spiegata da Gesù.

Amputare e guarire

La prima voce è quella della sapienza, che si esprime nel proverbio, frutto di osservazione e di esperienza: i malati hanno bisogno del medico, i sani no. Veramente abbiamo un altro proverbio nella Scrittura che sembra criticare la medicina: “Medico, cura te stesso”. E molti altri detti popolari del mondo antico erano piuttosto diffidenti nei confronti dei dottori. Il meglio che potevano fare, era non ostacolare la guarigione. Gesù rivela un dato semplice ed evidente: che i peccatori sono come malati. Che non possono guarire da soli. Ma deve combattere un’altra evidenza, profondamente radicata nel pensiero dei suoi interlocutori: che questa malattia non abbia rimedio. Il peccatore è irrimediabilmente perduto, come una cancrena che va solo tagliata, amputata, senza possibilità di risanamento. Gesù si presenta come un medico che guarisce. Se è così, meglio guarire che amputare.

Andate e imparate

Il medico però non si limita a guarire i peccatori incancreniti. Aggiunge una parola profetica. “Andate e imparate”. La parola che Osea aveva rivolto, secoli prima, ad un popolo malato (malato nel senso di peccatore). Ma era mai guarito? Improvvisamente, per rivelazione divina (non una nuova rivelazione, ma quella antica, già detta dal profeta), chi sta davanti a Gesù scopre di essere anch’egli malato, peccatore, incapace di capire le parole di Dio. Scopre che anche l’antico peccato di Israele può essere guarito, c’è un medico e un maestro che può cambiare i cuori.

Scandali e coscienza

Ogni scandalo, ogni notizia che eccita gli animi, porta ad un momentaneo moto di indignazione, che si esaurisce nella ricerca del colpevole. L’unico rimedio è l’amputazione: cacciare i clandestini, via i campi nomadi, ergastolo per quello, processate quell’altro. Il Vangelo di questa domenica è una buona notizia prima di tutto per coloro che sono condannati dal linciaggio mediatico: Gesù è pronto a sedersi a tavola con loro. Gesù chiede alla sua Chiesa (e a chi ha buona volontà di capire) di contribuire a curare, non ad amputare. Ma di più: proponendosi come medico, Gesù svela le ferite e le cancrene che teniamo nascoste. I rifiuti tossici smaltiti dall’ecomafia vengono dal Nord, i clandestini occupano i vuoti che noi abbiamo lasciato, i delitti che si commettono dicono che qualcosa non funziona nella società impazzita che stiamo creando... Quando ci lasceremo curare?

Flash sulla PRIMA LETTURA

“Affrettiamoci a conoscere il Signore”: un testo bello e poetico, carico di una vena romantica: Dio è come la “pioggia di primavera, che feconda la terra”. In esso il profeta rappresenta le migliori intenzioni del popolo, i buoni propositi di cambiamento e conversione. Potrebbe anche trattarsi di una citazione di un canto o di una liturgia penitenziale, che il profeta riprende per poterla criticare...
“Che dovrò fare per te, Èfraim,
che dovrò fare per te, Giuda?”
All’effusione sentimentale del popolo, il profeta risponde con dure domande a nome di Dio. Sono espressioni di rimprovero, di accesa contestazione, da parte di chi non sa più che provvedimenti si possano prendere.
“Il vostro amore è come una nube del mattino,
come la rugiada che all’alba svanisce”: ironicamente il profeta riprende le espressioni naturalistiche e meteorologiche con cui il popolo si era rivolto a Dio. Solo che non è più la fecondità il termine di paragone, ma la capricciosa volubilità del popolo, intento a fingere la conversione, per mezzo di liturgie vuote.
“Li ho uccisi con le parole della mia bocca”: Osea afferma il primato della parola divina, che ha più importanza dei rituali ormai vuoti e senza significato con cui il popolo pretende di lodare e celebrare Dio. L’espressione può urtare la nostra sensibilità: come può la parola divina uccidere? In prima istanza si può dire che la parola profetica “uccide” perché denuncia che l’amore del popolo è ormai finito: “poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti”. Ma se l’amore del popolo per Dio è ormai morto, allora, in seconda istanza, si può dire che il popolo stesso, che si fonda sull’alleanza con Dio, è in pericolo di vita: e quindi la parola profetica si fa annuncio di morte imminente per il popolo, estremo appello alla conversione. Se però davvero risuona l’ultimo appello, ecco che il popolo è posto di fronte ad una alternativa decisiva: non ascoltarlo significa morire. La parola profetica uccide, perché inchioda alle sue responsabilità un popolo incapace di scegliere il bene. Come la legge in S. Paolo, anche la parola profetica diviene rivelazione del peccato e strumento di condanna, finché non venga riscattata da Cristo.

SALMO

Mio è il mondo e quanto contiene
se avessi fame, a te non lo direi

Il salmo denuncia con forza una delle più ricorrenti e continue tentazioni del credente: quella di voler “comprare” Dio attraverso preghiere, riti e liturgie. Peraltro, stravolgendone il senso. Il sacrificio nasce infatti come riconoscimento della grandezza di Dio, come rendimento estremo di grazie, compiuto con i gesti e non sono a parole. Quando il sacrificio diventa azione che mira a impadronirsi di Dio, e tranquillizzare la buona coscienza dell’uomo, ecco che ha perso ogni ragion d’essere.

“Offri a Dio come sacrificio la lode”:
L’unica via di conversione è dunque un ritorno alle origini. La riscoperta delle forme essenziali dell’incontro con Dio: la lode e l’invocazione pura e semplice, compiute solo attraverso la parola. Di queste stesse forme primordiali ha bisogno la nostra liturgia, se vuole ritornare ad essere credibile. O meglio (la liturgia è sempre credibile: perché non è opera nostra, ma opera di Dio): ha bisogno la Chiesa, se vuole tornare ad essere credibile nella sua preghiera.

Flash sulla SECONDA LETTURA

“Fratelli, Abramo credette, saldo nella speranza contro ogni speranza”: una tensione per l’essenziale attraversa tutte le letture della domenica. Il profeta che riporta il popolo all’amore e alla conoscenza di Dio, il salmo che invita a recuperare l’invocazione e la lode, e nella seconda lettura Paolo che propone alla comunità di Roma la fede di Abramo.
“e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza»”: il progetto di Dio non è assurdo, non è incomprensibile: la sua parola lo rivela. Ciò che è incredibile è che possa compiersi proprio attraverso un anziano come Abramo, un popolo marginale come quello ebraico, un uomo solo, come Gesù, dei poveri cristiani come noi... Non ci è chiesto di credere in un’assurdità, ma in un progetto splendido, che, incredibilmente, riguarda proprio noi, e si compie con mezzi umani limitati, con la forza della potenza di Dio.