Commento al Vangelo: LA STRADA SICURA

Il discorso di addio

Non abbiamo un posto stabile sulla terra. Siamo solo di passaggio. Anche se tendiamo a dilazionare e rimandare il pensiero alle verità scomode. Vivivamo ed esistiamo per un breve tempo, paragonato alle epoche della storia, o alle ere del mondo. Il discorso di addio di Gesù, che l'evangelista Giovanni colloca prima della sua passione, intende illuminare la sua e la nostra morte, il senso della sua e della nostra fine. Qual è il significato della precarietà dell’esistenza. Un primo segnale di speranza è costituito dal fatto che si tratta di una strada che Gesù per primo ha percorso, e in una maniera unica: accettando la morte come occasione di dono, di offerta della sua vita. E riemergendo dal mondo della morte, come un primogenito: il primo di coloro che risorgeranno.

Nessuna paura

Il credente, colui che si fida di Gesù e del Padre, non ha dunque paura della morte. Gesù lo afferma con forza: “Non sia turbato il vostro cuore”. Il passaggio della morte, che Gesù sta per affrontare, e che riguarderà un giorno anche i discepoli e noi, non è un passaggio nel vuoto, ma l’approdare alla “casa del Padre”, dove ci sono “molte dimore”. La morte e la risurrezione hanno appunto lo scopo di “preparare un posto” nel cuore di Dio: il figlio ubbidiente apre una breccia, per così dire, nel cuore del Padre, e lo dispone all’accoglienza di numerosi fratelli. In questo modo viene ribadita la necessità della morte di Gesù, ma anche il suo senso. E indirettamente, il senso e la necessità della fine di ciascuno di noi.

Primo equivoco: dove va Gesù

Il discorso è difficile, per i discepoli come per noi. Tommaso chiede “dove” vada Gesù. Il luogo di cui parla è inteso in senso fisico, materiale, come se fosse un luogo del nostro mondo corporeo. La mentalità popolare chiama questo luogo “paradiso” e tende a concepirlo in termini materiali: un giardino, un’isola, una dimora nelle nuvole... Gesù risponde “nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Non è un luogo fisico: si tratta di avere accesso al Padre, il Dio invisibile, che la nostra mente non può neppure pensare compiutamente. L'equivoco di Tommaso è frequente anche per noi: noi pensiamo ad un “posto”, ad un “premio”, ad un “qualcosa” che ci viene dato: Gesù parla di una “relazione” con il Padre.
Non essendo un “luogo” è chiaro anche che non esiste una “via”, né in senso fisico, né in senso figurato. Non esiste cioè una serie di “regole” che garantiscano l’accesso alla vita eterna: la relazione con il Padre è legata al rapporto con Gesù. La via non è un elenco di “cose” da fare o da evitare, ma la relazione viva con una persona: Gesù stesso.

Secondo equivoco: mostraci il Padre

Comprendiamo quindi l’equivoco di Filippo: anche dopo le parole di Gesù egli cosifica la relazione con il Padre. Chiede cioè un’esperienza mistica, soprannaturale, eclatante. Ha compreso che si ha accesso al Padre solo seguendo l’insegnamento di Gesù. Ma separa Gesù dal Padre, lo intende come un maestro, uno che indica un qualcosa d’altro. Invece è proprio Gesù che mostra, nelle sue opere, nelle sue parole, nella sua umanità, la grandezza e la bellezza del Padre: “io sono nel Padre, e il Padre è in me”. Non è indispensabile un accesso “mistico” a Dio. L’approccio più sicuro – l’unico necessario — è attraverso Gesù. Che noi possiamo conoscere nella maniera più semplice e ordinaria: nell’ascolto del Vangelo, nella preghiera comune, soprattutto nelle celebrazioni liturgiche, che con la loro “scandalosa” semplicità ripropongono la stessa “scandalosa” modalità della presenza umana di Cristo. Per i discepoli era difficile credere che Gesù era il Figlio di Dio. Come per noi è difficile credere che egli si manifesti nella Messa domenicale, nella vita della Chiesa, nel fratello peccatore che mi porta l’annuncio di lui.

Chi crede, opera

La conseguenza sorprendente delle parole di Gesù sta proprio nella valorizzazione paradossale della vita presente, della vita terrena: essa è solo un passaggio, è vissuta nell’attesa e nella speranza di raggiungere il nostro “posto”, ma non perde di valore: l’addio di Gesù lascia i cristiani come testimoni del suo Regno, annunciatori del Padre, continuatori della sua opera. Troppo spesso il nostro agire è sterile, perché non è radicato in Gesù. Le buone intenzioni non bastano a rendere buona un’azione slegata da Cristo, scoordinata con la Chiesa, trascuratamente inconsapevole del progetto di Dio. Mentre chi crede, compie opere anche “più grandi” di quelle di Gesù. Chi attende di abitare presso il Padre non resta con le mani in mano. Senza paura, ripete ciò che ha fatto Gesù. Al di là del risultato, al di là dei calcoli, con l’orizzonte aperto alla fiducia nel futuro. Un futuro che resta nelle mani di Dio.